Ci alziamo alle 4. Partiamo subito e percorsi pochi chilometri, siamo al check point. Piove, l’aria è gelida, alcune bancarelle improvvisate offrono bevande calde, ma pochissimi si fermano, tutti hanno fretta non potendo prevedere il tempo che occorrerà per i controlli.
Ci mettiamo in coda, con centinaia di persone che vivono quella condizione ogni mattina.
Siamo in una gabbia lunga e stretta, disposti a due a due procediamo lentamente. Gli uomini ci guardano un po’ incuriositi, in inglese stentato, più noi che loro, diciamo da dove veniamo e loro ci informano sinteticamente di provenire da centri molto vicini (Betlemme e dintorni) o più lontani (Hebron). Sembrano rassegnati a mettersi in viaggio nel buio della notte per raggiungere il luogo del lavoro che dista spesso solo pochi chilometri. Ogni mattina quella fila silenziosa. Finalmente il controllo: due ragazzine armate, masticando chewing gum, esaminano i documenti mentre gli uomini appoggiano la mano destra sull’apparecchio delle impronte, dall’alto altri giovani militari osservano con il mitra spianato.
Nessun problema per noi turisti chiamati solo ad esibire il passaporto.
Uno dei lavoratori viene fermato, forse l’apparecchio delle impronte non funziona bene, prova con un altro ma… l’uomo non può passare. Avrà circa quarant’anni quando capisce che dovrà fermarsi, il suo sguardo esprime grande preoccupazione, non una parola. Noi dobbiamo procedere, non so come continuerà la giornata di quell’uomo, sono certa però che non si tratta di un temibile terrorista, che non troverò la notizia del suo arresto sul giornale di domani, ma forse non potrà lavorare neanche domani.
Per noi tutto è finito, per quelle persone invece questa sera si riproporrà la fila, con il controllo dei documenti e delle impronte. È così, ogni giorno, per un popolo che vive sulla propria terra.
A nord di Betlemme, mentre percorriamo una strada tranquilla, ci imbattiamo all’improvviso in un check point volante, non è certo l’unico da queste parti, di tanto in tanto pur in assenza di frontiere e confini ufficiali, ci si deve arrestare e, documenti alla mano, subire i controlli.
Un giovane militare israeliano, con l’aria triste, ci dice di vergognarsi per quello che è chiamato a fare, aggiunge che non vorrebbe umiliare tante persone che stanno semplicemente andando a lavoro, a scuola, a curarsi…
In questa parte del mondo non viaggiano neppure le merci, l’economia è soffocata e la disoccupazione dilaga.
Viaggiando, in questa terra santa, impariamo a riconoscere le case dai tetti rossi, quelle dei coloni israeliani. Ci viene spiegato che iniziano a comparire sull’alto di una collina e, presto, si moltiplicano scendendo verso la valle. Sono insediamenti che non hanno autorizzazione che occupano illegalmente territori appartenenti ad un altro stato, quello palestinese, uno stato che però non esiste. Così queste case abusive non vengono certo abbattute, anzi, arrivano sempre nuove ruspe e gli insediamenti si allargano. Nessuno interviene a fermare l’abuso, anzi, arriva l’esercito a sostenere i coloni.
Siamo qui solo da pochi giorni, proviamo irritazione, insofferenza, indignazione, ci chiediamo come sia possibile costruire la sicurezza del popolo israeliano attraverso la sopraffazione, l’umiliazione continua, l’esasperazione del popolo palestinese. Anziché la sicurezza, in questo modo si alimentano la rabbia e la disperazione. Chiunque viva questa esperienza non può rimanere indifferente, non si può dire che non sa, non può più accettare le semplificazioni e le falsità di un’informazione manipolata.
I palestinesi che incontriamo ci ringraziano di ricordarci di loro, ci chiedono di non lasciarli soli. Ognuno di noi, con i propri parenti ed amici, nelle amministrazioni locali, nelle parrocchie (ci sono cinque sacerdoti nel nostro gruppo), nelle scuole, nelle associazioni, in ogni occasione racconterà ciò che ha visto, con la consapevolezza che combattere quelle ingiustizie, costruire davvero la pace in quel luogo per i palestinesi e gli israeliani, ma anche per noi, per la nostra sicurezza, per la nostra speranza in un futuro migliore.
Rita Zanutel
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